di Adelaide Frova e Mariangela De Marco.
Intervista/recensione su “La pasta del capitano” di Geneviève Alberti
Una via di mezzo tra un dialogo e una intervista: due lettrici, due studentesse del corso di Critica giornalistica delle arti tenuto dalla Prof.ssa Maurizia Migliorini presso l’Università di Genova, si incontrano e nasce un originale modo di fare recensione. Quando si scrive a proposito di un libro generalmente lo si legge e/o si intervista l’autore. Questo articolo vuole invece portare l’attenzione sul lettore, su ciò che un libro lascia nell’animo di chi lo legge.
Un libro così particolare ed originale come La pasta del capitano di Geneviève Alberti non poteva che ispirare anche un insolito modo di proporre una recensione.
M. – Come sei arrivata a questo libro?
A. – L’autrice stessa ce lo ha presentato durante una lezione universitaria della Prof.ssa Migliorini. Ero molto interessata a quello che Geneviève Alberti diceva. Il suo modo di presentarsi è stato accattivante, dal mio punto di vista, fin dai primi attimi.
Ha tolto immediatamente quel divario che spesso c’è tra insegnante e studenti.
Questo suo modo di fare mi ha incuriosito a leggere il suo libro, comprato su Kindle lo stesso giorno della presentazione. Letto un pò a rilento nelle settimane successive poichè impegnatissima con lo studio, l’ho trovato fin dalle prime pagine molto interessante. È un tipo di lettura che non avevo mai fatto prima. Sentir parlare di precariato, poi da un punto di vista femminile, mi ha molto incuriosito. Leggerlo mi ha dato una visione su una situazione italiana che, da un punto di vista femminile, mi ci potrei ritrovare benissimo.
M. – L’autrice, appassionata di cinema, dà ad ogni capitolo il titolo di un film. In che modo questi titoli hanno influito sulla tua lettura dei capitoli?
A. – Mi reputo disinformata dal punto di vista cinematografico, per cui, non conoscendo la maggior parte dei film citati, sia i titoli dei capitoli e sia i film di cui parlano le quattro protagoniste – che poi son cinque, poichè la ragazza, Artemisia figlia di Francesca, è un personaggio molto presente – hanno avuto poca influenza nella mia lettura. Ho trovato simpatica l’idea. Certamente un invito a vedere i film, cosa che purtroppo non ho ancora avuto modo di fare.
M. Una delle protagoniste è laureata in Conservazione dei Beni Culturali e ha una figlia all’ultimo anno delle superiori, ma non è riuscita a trasformare la sua Laurea in un lavoro nel campo artistico. Tu sei al tuo ultimo anno di Corso di Laurea Magistrale in Storia dell’Arte e Valorizzazione del Patrimonio Artistico. Questa coincidenza di studi, ti ha suscitato delle riflessioni in merito a quello che potrebbe essere il tuo futuro?
A. – Non mi sento troppo vicina a Francesca, nel senso che spero di non arrivare a quel punto lì. Sto cercando di rivalutare molto anche il mio percorso di studi, cercare di avere tanti interessi e mettermi in discussione. Fino a un anno fa ti avrei detto “il mio desiderio alla fine dell’Università è quello di insegnare in un liceo” e infatti son contenta di aver cambiato idea proprio perchè comunque anche Francesca voleva insegnare e questo, letto nel libro, un pò mi ha spaventata, cioè il fatto di aver cose in comune con una persona con un lavoro precario.
Adesso non ho la più pallida idea di cosa potrò fare in futuro. Non mi sono posta degli obiettivi lavorativi.
Forse per paura di rimanerci male se non si realizzano o di trovare troppe porte chiuse. La vita mi ha insegnato a vivermi il presente.
M. – Quanto c’è di te in Artemisia, la figlia di Francesca?
A. – Siamo tanto diverse. Ho perso mia madre quando avevo quindici anni. A 18 anni mi sentivo molto più matura di come appare Artemisia nel romanzo. Mi sentivo grande, come esperienze, e certamente un pò più realista di Artemisia. Io ho sempre amato il mio paese. In lei, invece, c’è questa idea sempre di dover scappare dall’Italia.
M. – Che esperienza hai con il vivere all’estero?
A. – Io non ho mai vissuto all’estero. Ho 25 anni e quando ne avevo 15 sono stata con una mia zia per la prima volta a Londra alcune settimane. Da allora solo vacanze di venti giorni al massimo e sempre solo in Europa.
M. – Sul finale del libro, che non sveliamo, che pensiero hai avuto?
A. – Eccessiva fiducia. Nel senso che l’arco temporale in cui il tutto accade è troppo breve per esser vero. È un finale che si aggrappa a una speranza. L’ho percepito come in finto lieto fine.
M. – Dal mio punto di vista vedo il libro come un mezzo per urlare al mondo una verità che è sotto i nostri occhi, ma che non tutti siamo in grado di vedere. Il capitolo che fa riferimento al film “Dodici anni schiavo”, ad esempio, lascia senza parole, eppure c’è un urlo disperato tra quelle righe. In tutto il romanzo mancano riflessioni profonde sulle esperienze che le protagoniste vivono. Queste riflessioni sono assegnate a noi lettori? Cosa ne pensi?
A. – La riflessione che io ho tratto da questo libro, in generale, che si evince in tutta la narrazione trattata in maniera sempre ironica, su un tono leggero, forse per sdrammatizzare l’argomento così impegnativo, è che le protagoniste sono schiave di una società nella quale non si riescono mai a identificare.
Si sentono sempre schiave. Prima di una cosa, poi di un’altra.
Il loro non riuscire a trovare un posto fisso, che è il loro desiderio tanto bramato, le porta invece alla fine a realizzare il sogno della figlia di una di loro. Ma il finale l’ho trovato molto surreale.
A. – Ho adesso io una domanda per te. Visto che sei una persona lavorativamente parlando molto più attiva e da molto più tempo di me, cosa ne pensi del libro?
M. – Ho anche molti più anni di te, anche se non tutti se ne accorgono, e ho iniziato a lavorare prestissimo, a sedici anni, durante le vacanze estive nei miei ultimi anni alle scuole superiori.
Lavorare per me significava libertà.
Ho fatto lavori molto diversi, sia in Italia e sia all’estero, e non mi sono mai sentita precaria, anzi io aspiravo a non fare per trent’anni di seguito sempre lo stesso lavoro. Ho sempre amato imparare e ho reputato non sufficiente studiare sui libri, ma viaggiare, conoscere culture diverse dalla mia, svolgere lavori diversi da quelli che vedevo intorno a me da ragazza, per cui mi sono rinnovata molto spesso.
Per me lavorare era un modo per acquisire delle conoscenze, più che un mezzo per guadagnare dei soldi.
Il cosa avrei fatto e dove era più importante di quanto avrei guadagnato. Sono stata apprendista corniciaia, impiegata contabile, manager di un salone di bellezza a bordo di navi da crociera, assistente direttore d’arte alle aste a bordo delle navi da crociera, cuoca in Inghilterra e in Francia, ho anche azzardato un paio di volte ad avere una mia partita IVA qui in Italia per una attività autonoma, ma ho dovuto rinunciare.
Si, di esperienze lavorative ne ho fatte tante, per cui il mio primo pensiero leggendo già i primi capitoli è stato che me ne sarei andata via al massimo dopo una settimana alle condizioni in cui invece lavoravano le protagoniste del libro. La scena, poi, delle cimici mi avrebbe fatto rinunciare subito, appena scoperto che i sacchi sarebbero dovuti andare nella mia auto. No grazie!
Ecco, nella mia lunga esperienza ho imparato a non aver paura della povertà e a rispettare me stessa prima di tutto. Sono dell’idea che va bene anche fare un lavoro che non mi soddisfa al cento per cento, ma che almeno mi lasci del tempo libero per fare ciò che amo.
Le protagoniste del romanzo, invece, dedicano tutto il loro tempo e la loro energia per una manciata di spiccioli.
Non rientra nel mio progetto di vita che è innanzitutto vivere e fare esperienze che mi arricchiscano come persona. Penso che il libro sia veritiero. Quelle situazioni sono reali e bisogna prendere atto di questo per iniziare a fare il primo passo per cambiare.
A. – C’è qualche personaggio nel quale ti sei un pochino più immedesimata?
M. – Direi in tutte le protagoniste per esperienze di vita in comune, ma caratterialmente con nessuna. Ho iniziato la mia “avventura universitaria” che avevo quasi 47 anni. Ho da poco compiuto 51 e il libro inizia con una delle protagoniste che compie quel giorno 50 anni.
Età simile, ma modo di pensare, di agire, espressioni verbali, tutto assai diverso da me.
C’è la ragazza che fa l’educatrice con la quale ho sentito una vicinanza di sentimenti in merito non al suo lavoro di precaria in un asilo nido, anche se ho anch’io esperienza di lavoro con i bambini, ma mi sono immedesimata nella sua situazione sentimentale e nel suo dolore. A distanza di anni posso ammettere che quella è la scelta giusta. Brava Sofia! C’è Francesca laureata in Conservazione dei Beni Culturali come me, anche se io con il nuovo ordinamento e c’è la giovane giornalista Federica. Sono al secondo anno del Corso di Laurea in Informazione ed Editoria, curriculum Giornalismo Culturale, per cui ho qualcosa in comune anche con lei. Caratterialmente sono tanto diverse da me. Poi c’è la giovanissima Arianna che odia l’Italia e vuole andare all’estero. La comprendo. Alla sua età sentivo che il mio posto era altrove e non nel mio paese di provincia in Abruzzo, ma non avevo tutta quella rabbia dentro che invece ha lei. La rabbia, così come anche l’odio verso qualcosa, non sono buone consigliere.
A. – Dopo la lettura di questo libro ti senti un pò avvilita da questa società o sei più speranzosa che le cose possano cambiare?
M. – Il libro non cambia di molto ciò che penso di questa società, inteso come mondo del lavoro in Italia. Dopo aver lavorato quasi tre anni in Inghilterra e quattro anni a bordo di navi da crociera con datori di lavoro inglesi e americani, ammetto che più di una volta, tornata in Italia e trovando difficoltà a reinserirmi nel mondo del lavoro, mi sono pentita della scelta di rientrare in patria.
Non sono avvilita. Ho imparato a “riciclarmi” e a fare cose nuove.
Sono fiduciosa del fatto che se sempre più persone impareranno a farsi rispettare, a mettere i giusti limiti e a dare valore al proprio tempo, le condizioni lavorative che sono bene esposte nel libro potranno cambiare in meglio. Le protagoniste del libro ci mettono in guardia. Ci mostrano una realtà di cui noi facciamo parte e secondo me le esperienze qui condivise possono essere lo spunto per chi vuole magari – perché no? – mettersi in proprio e creare una cooperativa sociale che lo sia non solo di nome, ma di fatto.
Gli esseri umani, tutti, nessuno escluso, vanno amati e l’amore comincia con il rispetto.
Adelaide Frova e Mariangela De Marco
12 gennaio 2024